In occasione della Biennale d’Arte di Firenze, abbiamo avuto il piacere di ospitare all’Antica Torre Tornabuoni la pittrice Anastasiia Novitskaya, un’artista che trasforma la luce in linguaggio e la nostalgia in colore.
Nata in Ucraina, vissuta tra diversi Paesi e approdata oggi in Italia, Anastasiia porta nelle sue tele l’intensità dei luoghi che ha abitato e l’urgenza di un dialogo profondo con la natura.
Durante il suo soggiorno in Torre, tra la storia viva delle sue mura e la vista mozzafiato su Santa Maria del Fiore, ci ha raccontato il suo percorso, le sue ispirazioni e il progetto “Lost” — una serie che riflette con poesia e ironia sul destino del nostro pianeta.
Scopri l’intervista per conoscere più da vicino la visione e il mondo artistico di Anastasiia Novitskaya.
Cosa pensi abbia influenzato di più l’estetica visiva della tua arte?
I luoghi in cui ho vissuto hanno avuto un’influenza enorme sul mio modo di percepire la luce e il colore. Ho già vissuto in tre paesi, e ognuno ha lasciato un segno profondo. Per esempio, in Polonia dipingevo spesso tramonti – ma erano inventati. Per nove mesi all’anno il cielo è grigio e nuvoloso, quindi creavo la luce che mi mancava.
Quando mi sono trasferita a Genova, tutto è cambiato. Qui non c’è bisogno d’immaginare i tramonti – li hai davanti agli occhi ogni giorno. Mi basta osservare, sentire e trasferire tutto questo sulla tela.
Hai sempre sognato di diventare un’artista o è successo per caso?
In realtà, da bambina sognavo di diventare veterinaria. Amo moltissimo gli animali, ma col tempo ho capito che amarli e curarli sono due cose completamente diverse (ride). È una professione difficilissima, che richiede nervi d’acciaio e un cuore enorme.
Disegnare, invece, l’ho sempre amato. A scuola, all’università – tutti i miei quaderni erano pieni di schizzi ai margini. È sempre stato il mio modo di esprimere emozioni e osservazioni. Col tempo ho capito che essere artista è la mia vera vocazione.
Cosa pensi che il pubblico possa trarre dalle tue opere?
Credo che ogni spettatore possa trovare nelle mie tele qualcosa di unico e personale. C’è chi riconosce nelle mie opere le proprie emozioni o ricordi, chi le percepisce come fonte d’ispirazione o riflessione sul rapporto con la natura. Altri, semplicemente, si lasciano trasportare dall’armonia dei colori e delle forme.
Il mio obiettivo è creare opere che parlino a ciascuno sul piano della propria sensibilità. Credo che l’arte abbia il potere di unire, far riflettere e suscitare emozioni — e spero che i miei lavori contribuiscano a questo dialogo universale.
Di cosa ti stai occupando ora? Quali temi esplori nelle tue opere?
In questo momento cerco di sensibilizzare le persone sul fatto che l’ecologia è in pericolo. Siamo arrivati a un punto in cui non basta più osservare: bisogna agire. Da qui è nato il mio progetto Lost. Con esso voglio mostrare come vedo il futuro, se l’umanità non cambierà rotta — attirare l’attenzione sulla complessità e l’urgenza del problema.
Nella serie “Lost” ci troviamo di fronte a un mondo che, a prima vista, sembra familiare e persino accogliente. Ma è un’illusione. Ogni quadro raffigura un astronauta immerso in gesti quotidiani — che pranza in un caffè, nuota nel mare, legge un libro. Scene calde e luminose… fino a quando non le si osserva più da vicino.
Queste opere non sono solo immagini: sono uno specchio del futuro, un avvertimento su ciò che potrebbe accadere se non proteggiamo il nostro pianeta. L’astronauta è il testimone dell’umanità perduta — un simbolo di solitudine e speranza. Non è un astronauta nel senso tradizionale, ma un sopravvissuto, per il quale la tuta è diventata l’unico modo di esistere sulla Terra.
La serie invita a sorridere, ma anche a riflettere. Mostra che, anche nelle condizioni più tragiche, l’essere umano sa conservare l’ironia e l’ottimismo, ma ci ricorda anche che ognuno di noi porta la responsabilità per il futuro del pianeta.
Il tema ecologico è ormai molto discusso. Cosa puoi dire che non sia già stato detto?
Credo che il nostro vero problema sia l’iperconsumo. Non serve cambiare tutto: basta ridurre ciò che consumiamo. Non voglio essere associata ad alcuni movimenti eco-attivisti, perché non condivido i loro metodi. Quando lanciano vernice contro i quadri, distruggono un patrimonio culturale – e questo è sbagliato. Vogliono attirare l’attenzione, ma lo fanno attraverso la distruzione, e ottengono solo irritazione.
Le azioni reali devono essere dirette non contro l’arte, ma verso chi prende le decisioni: governi e corporazioni, i veri responsabili dei danni ambientali. In breve: il problema principale dell’umanità è l’eccesso di consumo.
In quali direzioni lavori? Quali serie ami di più?
È difficile scegliere una sola serie — ognuna per me è come un capitolo della mia vita. Adoro la mia serie di animali vittoriani: ognuno ha il suo carattere, la sua emozione, la sua piccola storia.
I fiori, invece, occupano un posto speciale: sono sempre luminosi, pieni di luce e di respiro, come una promessa di rinascita. Anche i miei paesaggi mi sono cari — credo che chiunque possa riconoscere in essi un luogo o un’emozione familiare.
Ultimamente mi sto dedicando anche all’astrazione. Mi risulta più difficile, ma penso che la vita di un artista, senza sperimentazione, sarebbe terribilmente noiosa.
Ti capita che il pubblico interpreti le tue opere senza conoscerne il contesto? Ti piace questa libertà?
Mi piace moltissimo. A volte lo spettatore vede nella mia opera qualcosa di completamente diverso da ciò che intendevo – e lo trovo meraviglioso. L’arte, secondo me, deve vivere la propria vita una volta uscita dalle mani dell’artista.
Se una persona ha provato un’emozione, anche senza conoscere la storia, allora tra noi è già avvenuto un dialogo. Lasciamo che ognuno trovi nelle mie opere il proprio riflesso — perché questa è la magia dell’arte: diventa uno specchio in cui ognuno vede sé stesso.
Quali artisti ti ispirano?
Ho iniziato cercando di riprodurre i paesaggi marini di Aivazovsky. Mi affascinava il modo in cui dipingeva la luce — non come riflesso, ma come respiro della natura. Poi ho scoperto Van Gogh: il suo uso del colore e della materia mi ha insegnato che il tratto può essere un’emozione, non solo una tecnica. Infine, Renoir – con la sua luce morbida, il calore e l’umanità.
Forse in questi tre artisti c’è tutto ciò che sento più vicino: la forza degli elementi, il sentimento e quella luce che vive dentro l’essere umano. Resto sempre disponibile per confrontarci e dialogare.
Quali sono i tuoi progetti dopo la Biennale?
Prima di tutto, voglio tirare un sospiro di sollievo. Gli ultimi mesi prima della mostra sono stati intensissimi, pieni di lavoro e preparativi.
Dopo questo periodo così frenetico, vorrei dedicarmi alla realizzazione di un mio progetto personale: una installazione 3D composta da sette tele, ognuna accompagnata da un oggetto creato appositamente per ampliare il significato dell’opera nello spazio reale.
Le opere creeranno un percorso narrativo: il visitatore attraverserà scene apparentemente ordinarie, percependo al tempo stesso il collasso ecologico nascosto sotto uno strato di ironia.
In questa installazione la pittura incontra gli oggetti – plastica, fotografie Polaroid, libri, elementi quotidiani – affinché lo spettatore non solo osservi, ma interagisca e comprenda immediatamente il senso di ogni scena.
L’Antica Torre Tornabuoni è un luogo in cui l’arte incontra la storia. Come hai vissuto questo dialogo tra la tua arte contemporanea e un ambiente così ricco di memoria e bellezza? C’è un momento o un dettaglio del tuo soggiorno che porterai con te come fonte d’ispirazione?
L’Antica Torre Tornabuoni mi ha colpita per la sua atmosfera autentica e accogliente. Le persone che ci lavorano sono incredibilmente gentili e disponibili, e si percepisce subito un grande rispetto per l’arte e per gli artisti. La terrazza è diventata il mio angolo preferito: bere un caffè lì, guardando Santa Maria del Fiore, è un momento di pura ispirazione. Penso che porterò con me proprio quella sensazione di calma e bellezza che solo Firenze sa regalare.
